sabato 25 febbraio 2012

Divorzio non consensuale fra soci: nelle società di persone si può.


Riferimenti normativi.

Artt.  2286, 2287, 2288, 2289 c.c.

Il socio amministratore di una s.n.c. o l’accomandatario di una s.a.s. ha venduto a prezzo vile il principale cespite della società, ha violato il divieto di concorrenza di cui all’articolo 2301 c.c. L’accomandante o il socio non amministratore di una s.n.c. ha violato l’obbligo di conferimento.
In queste, come in altre situazioni simili, è possibile l’esclusione del socio di una società di persone.
Il procedimento di esclusione è disciplinato dall’articolo 2287: «L'esclusione è deliberata dalla maggioranza dei soci, non computandosi nel numero di questi il socio da escludere, ed ha effetto decorsi trenta giorni dalla data della comunicazione al socio escluso. Entro questo termine il socio escluso può fare opposizione davanti al tribunale, il quale può sospendere l'esecuzione. Se la società si compone di due soci, l'esclusione di uno di essi è pronunciata dal tribunale, su domanda dell'altro».
Per escludere un socio di società personale non è necessario convocare un’assemblea o una simile riunione dei soci.
La Cassazione (nn. 536/53 153/98, 6394/96, 1977/73, 2603/58, 1037/57, 664/55) e i giudici di merito ritengono, infatti, che nella disciplina della società di persone manchi la previsione dell'organo e del metodo assembleare; sicché per escludere un socio non è necessaria la consultazione di tutti i soci, né la contestualità della manifestazione di volontà espressa.
Il socio escluso ha naturalmente diritto alla liquidazione della sua quota ai sensi dell’articolo 2289: spesso si tratta di una liquidazione non soddisfacente (anche perché non sempre in società a base ristretta o familiare esiste particolare accuratezza contabile e perché è molto difficile valutare l’avviamento.)
La disciplina sull’esclusione del socio di società di persone si presta a qualche abuso: escludere un socio è molto facile, mentre proporre opposizione è molto difficile (e costoso) per l’escluso (anche perché molti contratti di società contengono clausole arbitrali, obbligando a ingenti spese per il compenso degli arbitri).
Si tratta di qualcosa di simile a un divorzio non consensuale senza una previsione sicura di assegno di mantenimento.
Gli imprenditori e i loro consulenti dovrebbero quindi prestare particolare attenzione al rischio di esclusione e soprattutto ricordare che l’esclusione si delibera a maggioranza “per teste”: basta quindi che un socio sia solo contro tutti gli altri perché ci sia il rischio del suo allontanamento dalla società.



sabato 18 febbraio 2012

Affitto di azienda. Una storia possibile.

Marco è socio e amministratore unico di una società che lavora in edilizia e in questo periodo è molto preoccupato: a casa se ne sono accorti, ma non osano chiedere perché.
È successo che due grossi clienti sono falliti e che il Comune di Nonpago ha bloccato tutti gli Stati di Avanzamento Lavori della costruzione della palestra: all’ufficio contabilità dicono che c’è il patto di stabilità, una bella scusa per non pagare.
L’avvocato, che costa anche un po’ di soldi, ha mandato delle intimazioni, ma si è capito che non può fare niente.
E poi ci sono quei signori tanto gentili di Equitalia, che aspettano il pagamento delle rate concordate l’anno scorso, quando non si è riusciti a pagare le tasse arretrate.
Il commercialista e l’avvocato cominciano a parlare di portare i libri in Tribunale, anche perché questo mese è un miracolo se si pagano gli stipendi. A Marco dispiace molto per il lavoro che si è fatto e per i dipendenti, che si troveranno senza un futuro.
Poi però arriva la telefonata di un vecchio cliente: ci sarebbe un lavoro urgente, sicuro e redditizio.
Ma come si fa? Tutto sta andando male, come si possono pagare i debiti continuando a lavorare?
Marco ci pensa un po’ su, chiama i consulenti, i soci e il cliente.
Alla fine si trova una soluzione: affittare l’azienda a una nuova società, magari coinvolgendo nuovi soci, nuove energie, nuove idee (e nuove garanzie per le banche).
La decisione sembra davvero buona perché per il codice civile chi affitta un’azienda non risponde dei debiti pregressi (salvo che si tratti di debiti verso i dipendenti) e perché è possibile il recupero della SOA.
In questo modo l’attività può continuare, si può trasferire la SOA purché la struttura tecnica resti intatta e si può evitare di rovesciare sul reddito del nuovo lavoro il peso dei vecchi debiti.
Si salva il posto di lavoro dei dipendenti e si salvano i rapporti con gli artigiani con i quali si lavora da tanti anni.
E i vecchi creditori che non si possono certo dimenticare?
Beh, con il canone di affitto di azienda si possono intanto pagare le rate più importanti e urgenti e si può poi proporre a tutti un piano per il pagamento a stralcio in maniera paritetica grazie ai redditi della nuova attività, magari con i soldi del sospirato pagamento del Comune di Nonpago.
Del resto, senza l’affitto e vendendo subito all’asta fallimentare i beni dell’azienda non avrebbero preso pressoché nulla  (anche perché il curatore fallimentare un compenso lo deve pure prendere….)!
Marco è più tranquillo e può cercare nuovi lavori, magari in campi nuovi come la bioedilizia o quella a impatto zero. Magari innovando e inventando qualcosa si può guadagnare di più e offrire una buona percentuale ai vecchi creditori: speriamo solo che le banche ricomincino ad avere fiducia in lui...

RIFERIMENTI NORMATIVI: ARTT. 2112 e 2562 CODICE CIVILE, ARTICOLO 51 D. LGS. 163 2006, ARTICOLO 76 D.P.R. 5 OTTOBRE 2010 N. 207

domenica 5 febbraio 2012

Le società? Riposino in pace!

Una s.r.l. ha realizzato dei macchinari difettosi e li ha venduti senza che gli amministratori si curassero delle conseguenze di tale vendita.
I compratori subiscono dei danni ma si limitano ad inviare delle diffide al risarcimento senza chiedere misure cautelari.
Intanto la società è stata posta in liquidazione e cancellata dal Registro delle Imprese.
Dopo un anno dalla cancellazione i creditori agiscono, ma si rendono conto di non poter ottenere più nulla.
A seguito della modifica dell’articolo 2495 del codice civile dovuta alla riforma del 2003,  della modifica dell’articolo 10 della legge fallimentare dovuta alla riforma del 2006 e di importanti sentenze della Cassazione (come la 4062 del 2010, a Sezioni Unite) la cancellazione delle società di capitali dal Registro delle Imprese ha efficacia costitutiva e la società non può essere più dichiarata fallita decorso un anno dalla cancellazione (soluzione analoga è adottata, con un particolare percorso argomentativo, anche per le società di persone).
Questo vuol dire che chi è creditore di una società è costantemente esposto al rischio di vedere “scomparire” il proprio debitore, destinato a riposare in pace senza essere disturbato.
Certo, la legge ammette un’azione nei confronti dei liquidatori negligenti e dei soci nei limiti di quanto ottenuto dalla liquidazione (per l’intero credito se si tratta di soci illimitatamente responsabili).
Certo, il Fisco ha le maggiori possibilità di azione contro i liquidatori previste dall’articolo 36 del d.p.r. 602/73.
Non è però molto, dato che si tratta di regole facilmente aggirabili mediante la spoliazione dei soggetti responsabili e dato che i creditori perdono la possibilità di richiedere il fallimento.
Ci sono due soluzioni.
O si agisce per la revoca della cancellazione della società con provvedimento del Giudice del Registro ex articolo 2191 cod. civ. (qualche apertura in giurisprudenza c’è).
Oppure (e questa credo sia la strada preferibile e meno complessa) si agisce mentre la società è ancora attiva, cercando di ottenere il sequestro dei suoi beni.
Ancora una volta è, però, fondamentale, che si abbia avuto curare di instaurare con i propri debitori delle relazioni molto chiare, in modo tale che si possano concludere eventuali cause in tempi molto brevi.